Fashion Journal

Stampa Tessile

Stampa tessile: l’intramontabile eleganza del devorè

Dopo aver parlato della stampa a corrosione, passiamo a illustrare un’altra tecnica che fa parte della stessa tecnologia applicativa ovvero la stampa devorè in quanto risultato di una corrosione. Il nome, infatti, deriva dal francese “divorato” e prevede l’uso di acidi per creare differenze di altezze e di riflessi nella superficie del tessuto. Si comprende, quindi, l’origine del suo fascino dato, non solo dal pattern visibile ad occhio nudo, ma anche dall’effetto tattile.

Il procedimento

Ma addentriamoci di più in questa tecnica e cerchiamo di capirne il procedimento. Affinché si possa applicare è

Fig. 1 – stampa devorè con ampie zone bruciate

necessario avere un tessuto misto composto da una fibra sintetica o artificiale per la trama (es. poliestere, viscosa) e una cellulosica per l’ordito (es. cotone, lino, seta, lana). La parte cellulosica è fondamentale poiché le paste acide, che verranno stese con dei cilindri seguendo la fantasia voluta, in fase di asciugatura a 140°-170° ne carbonizzano le fibre, lasciando in evidenza il fondo sintetico che invece non viene intaccato.

Quest’ultimo generalmente è un’organza ovvero un’armatura di per sé abbastanza trasparente che fa risaltare ancor
di più lo stacco tra zone a rilievo e parti piatte, createsi a seguito delle bruciature selettive dell’ordito. Segue poi uno spazzolamento per rimuovere tutti i resti delle fibre bruciate e il lavaggio per eliminare i residui della reazione chimica.

In sintesi il processo del devorè si può spiegare come una serie di bruciature selettive che vanno a creare disegni in trasparenza che regalano un gioco di chiaroscuri e di diversi rilievi.

La storia

Fig. 2 – stampa dei colori sulle aree trasparenti

Ora, considerata la grande tecnologia che racchiude il devorè, risulta interessante scoprire quando è nato e come. Ebbene, il processo chimico, conosciuto anche nella sua versione inglese come burnout, è stato sviluppato tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento nelle industrie lionesi di depurazione della lana con esiti poco precisi nei bordi bruciati. Ma è negli anni ’20 che si consolida e che viene usato per sciarpe, fazzoletti, abiti da cocktail e da sera con disegni geometrici e floreali.

Tuttavia è solo negli anni ‘80-’90 che, grazie alla sperimentazione della stilista britannica Georgina von Etzdorf e alla rivisitazione della designer Jasper Conran, ha acquisito grande popolarità ed è stato applicato soprattutto per abiti da sera e costumi teatrali.

Conran lo proponeva spesso nelle sue collezioni e ha rivisto la tecnica per il mondo del teatro. Nel 1992 in “My fair lady” molti venditori di strada e il personaggio Elize Doolittle indossavano capi in devorè, mentre l’anno seguente vennero realizzati un tutù in velluto per il Royal Ballet e molti dei costumi di scena della “Bella addormentata” dello Scottish Ballet.

Applicazioni e colori

Da quel momento è stato applicato sia nell’abbigliamento che nell’arredamento, soprattutto per i tendaggi in quanto si possono ottenere interessanti giochi di filtraggio della luce e valorizzazione degli ambienti. Un altro utilizzo è il finto pizzo e tessuti apprezzati per i giochi bicolore tra la parte a rilievo dell’ordito e la parte divorata della trama.

I devorè sono tessuti corposi, morbidi e con un lavorazione importante. Proprio per questo i colori in cui vengono proposti sono normalmente neutri (come il bianco, il beige, il tortora e il grigio argento) in modo da adattarsi più semplicemente al contesto d’uso.

Il devorè nella moda

Negli anni ’20 e ’30 erano molto diffusi gli abiti femminili in velluto devorè con la parte sintetico-artificiale per lo più in seta o rayon come testimoniano i velluti di georgette pubblicati su Vogue nel settembre 1927. Teniamo presente che in questi anni lo sviluppo della produzione della viscosa quale sostituto della seta ha dato una spinta all’applicazione del devorè, molto più semplice rispetto all’applicazione su cotone o lino.

Inizialmente le parti devorate erano molto limitate, mentre, col progredire della padronanza nell’uso della chimica tessile, si arrivò a bruciare zone sempre più ampie (Fig. 1). Successivamente attorno alla metà degli anni Trenta il burnout venne associato alla stampa dei colori sulle aree trasparenti (Fig. 2).

Negli anni ’70-’90 sono stati molti i brand che hanno usato il burnout nelle loro realizzazioni come Lancetti di cui si ricorda per esempio un bellissimo abito da sera rosa del 1966 fotografato da Giampaolo Barbieri, Yves Saint Laurent e di altri grandissimi marchi.

In anni più recenti, l’autunno inverno 2013 ha visto sia Alberta Ferretti che Balmain riproporre questa tecnica con richiami all’art nouveau, mentre oggi, con il ritorno della moda anni ’90, sta tornando in voga. A conferma potete guardare le vestaglie e altri capi firmati Etro che i Måneskin hanno indossato a Sanremo 2021.

Se siete interessati al devorè, presso l’archivio della Fondazione Fashion Research Italy potete ammirare degli esempi sia realizzati a mano come disegni tessili che pezzi storici degli anni ’20 e ’30.

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Silvia Zanella
Archive Assistant dell’archivio della Fondazione Fashion Research Italy di Bologna, si è occupata della catalogazione e del condizionamento dei diversi fondi archivistici sin dalla loro costituzione, svolgendo anche attività di formazione sulle tematiche dell’archivistica di moda e dei processi di stampa tessile. Ha conseguito la laurea magistrale in Storia dell’Arte presso l'Università di Firenze e nella medesima città ha svolto uno stage post laurea presso il Museo Salvatore Ferragamo, dove ha collaborato all'organizzazione della mostra Un palazzo e la città, affiancando le attività della Direzione.

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