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Fashion Journal

Eco Fashion

Regenesi, i pionieri del recycle

Il primo maggio del 2008 ero a Napoli, durante una delle tante emergenze rifiuti di quel tempo. Osservando la città, con tutte le sue ricchezze storiche, sommersa dai cumuli di immondizia, pensai che tutto quel pattume sarebbe potuto diventare a sua volta una fonte di ricchezza. Bastava volerlo. Così è nata Regenesi.

Questa non è la storia di una multinazionale che, per pulirsi la coscienza, decide di lanciare un prodotto green realizzato con materiali di scarto, pur mantenendo il 99,9% della produzione così come la si faceva negli anni Novanta del secolo scorso. Questa non è la storia di una startup che nasce per diffondere il verbo della sostenibilità, cerca capitali per crescere e poi non vede l’ora di vendere al primo fondo che passa. Questa, invece, è la storia di una visionaria che 15 anni fa decide di fare quel che l’istinto e il dna le dicono, dando vita a un’azienda rimasta indipendente, basata su un modello di business agile. Si fonda sulla collaborazione con realtà-supplier del suo territorio per mettersi a disposizione di realtà globali-customer che vogliono realizzare progetti di trasformazione dei rifiuti in materiali di partenza per creare oggetti di design, prodotti di moda e mille altre applicazioni.

Questa realtà si chiama Regenesi (nomen omen), l’ha creata Maria Silvia Pazzi e la sua sede operativa è a Ravenna. Partiamo dunque con l’intervista alla founder e ceo che sarà una delle protagoniste di Circular Fashion, incontro dedicato a potenzialità e sfide dell’economia circolare per la moda che si terrà giovedì 12 ottobre alle 17 presso la sede di Fondazione Fashion Research Italy a Bologna.

Regenesi nasce decisamente in anticipo rispetto ai trend dell’economia circolare. Non deve essere stato facile…

Indubbiamente quando all’inizio dichiaravo di voler trasformare il rifiuto in bellezza venivo considerata al limite della visionarietà, se non della follia. E questo era molto coerente con il cognome che porto… Tutto nasce dal mio interesse per la moda, il design, l’architettura e il made in Italy. E poi dal fatto che la sostenibilità, vivendo in Romagna dove la raccolta differenziata è un fatto radicato, fa parte del mio dna. Sentivo l’esigenza di avviare un progetto imprenditoriale. La modalità operativa condivisa con il territorio è la conseguenza della mia attività di consulente, che prima di creare Regenesi mi aveva portato a interagire con diverse associazioni e reti di imprese.

La molla che fece scattare il progetto è quella dell’emergenza rifiuti a Napoli. E oggi siamo qui, con tante nuove iniziative e con lo stesso modello del giorno in cui siamo nati. Mi è stato detto che Regenesi è l’unica startup a non aver cambiato una virgola della propria missione e del proprio credo. Da allora siamo stati premiati più volte come pionieri dell’economia circolare e abbiamo anche attivato tutta una serie di know how tecnologici che hanno portato a creare Regenstech, la startup innovativa a cui abbiamo trasferito una serie di brevetti per la trasformazione dei rifiuti tessili.

Come avete convinto i primi artigiani a sposare la causa di creare borse con i materiali di recupero?

In questi 15 anni sono stata guardata spesso come una marziana, ormai sono abituata. La fortuna, nella sfortuna di quel momento storico, fu la crisi dei mutui subprime che sarebbe scoppiata pochi mesi dopo, con ripercussioni sull’attività industriale e sugli ordinativi anche nella moda. Molti laboratori artigiani si trovarono senza lavoro e con il tempo da poter dedicare a progetti alternativi come il mio, che imponeva peraltro delle modalità di manifattura spesso sconosciute. I materiali rigenerati che noi utilizziamo si comportano infatti in modo diverso da quelli vergini. Così abbiamo ottenuto quell’attenzione che normalmente una startup con piccoli lotti di lavoro non riesce ad attrarre. Ancora oggi il modello di Regenesi consiste nell’affiancare una filiera totalmente made in Italy, perché la nostra innovazione è condivisa con la capacità di innovare dei nostri fornitori e partner.

Con quali prodotti avete iniziato? E quali ambiti presidiate oggi?

Il mio grande desiderio era quello di voler creare uno stile di vita. Partendo da una sorta di catalogo “bianco” ovvero tutto da costruire, abbiamo dato libertà ai designer con cui è iniziata l’attività di Regenesi nell’interpretare materiali diversi per realizzare prodotti diversi. Dalla pelle rigenerata, con la quale abbiamo creato borse e altri oggetti di pelletteria, alle plastiche, da cui sono nate lampade e tappeti, all’alluminio trasformato in sottopentola o piatti. Fin dall’inizio abbiamo ammiccato all’accessorio moda e all’oggettistica da design, con il desiderio di essere un’azienda che operava nel lifestyle.

Regenesi ha poi sviluppato soprattutto la category borse e accessori moda, che oggi vale il 60-70% del nostro intero parco prodotti. Amiamo ragionare in termini di progetti e facciamo fatica a rimanere chiusi dentro i confini delle category. Andiamo oltre allo sviluppo dei singoli oggetti per lavorare in sinergia con altre aziende perchè la simbiosi industriale aumenta l’incisività con cui si fa economia circolare. Questo ci ha portato a sviluppare prodotti diversi e molto particolari, dettati dall’esigenza del partner e dai suoi materiali di riferimento.
Ogni volta la sfida sembra impossibile e poi porta a risultati sorprendenti. Penso per esempio, la collaborazione con il Comune di Ravenna ci ha portato a prestare il nostro know how per la realizzazione di un’opera d’arte. O alla collaborazione con Automobili Lamborghini che ci ha portato a lavorare contestualmente gli scarti della selleria, quindi la parte legata alla pelle, e del carbonio, per arrivare alla produzione di accessori destinati ai loro uffici. è stata certamente una bella impresa.

Quali sono state le collaborazioni più importanti in questi 15 anni?

Le prime sono sempre le più importanti, perché ti rendi conto che stai contribuendo a diffondere un verbo nuovo e strano. Di conseguenza, citerei quella con Dainese, iniziata nel 2013, con il recupero delle tute di motociclismo agonistico. Questa collaborazione ci ha portato a realizzare prodotti interpretati come pezzi unici e che hanno spinto, proprio per questo, l’attrattività commerciale in quanto i rifiuti diventano oggetti di collezione. E poi quella con Enel: dal recupero delle scocche dei contatori abbiamo creato delle sedute per i loro uffici. Ora con Egoitaliano, dagli scarti di produzione dei divani, abbiamo dato vita ai portapenne utilizzati durante il Salone del Mobile, grazie alla tecnologia brevettata con Regenstech.

Quanti siete in azienda? E cosa vi aspettate dal futuro?

Molto pochi. Regenesi è un’azienda-rete, e questo aspetto è stato fondamentale fin dall’inizio perché ci ha permesso di spaziare in termini operativi potendo contare sulle expertise d’eccellenza che il nostro territorio ci offre. Di conseguenza, siamo un ufficio con due soci e due persone in affiancamento, che però interagisce con oltre cento partner esterni. Un piccolo gruppo che coordina un gruppo molto più ampio. Il nostro obiettivo è usare le competenze per far bene all’ambiente. Perché Regenesi, di fatto, è un hub, uno spazio di consulenza a disposizione di tutti per arrivare alla realizzazione di prodotti sostenibili. A febbraio quindi abbiamo brevettato un sistema che ci permetterà, tramite l’intelligenza artificiale, di capire in automatico come il nostro know how può essere applicato a ogni azienda con cui interagiamo.

Quanto conta l’Emilia Romagna per voi? Dopo motor, food e wellness valley, potrebbe nascere una recycle valley?

Il contesto regionale per noi è sicuramente importante sia a livello di innovazione, perché i brevetti che abbiamo ottenuto e stiamo portando avanti sono frutto delle relazioni con il nostro territorio, sia di filiera. La maggior parte delle borse che produciamo arriva da partner nel raggio di 500 metri dalla nostra sede. Il territorio emiliano-romagnolo è una bella risorsa per la manifattura italiana, basti pensare a distretti come quelli di San Mauro Pascoli e a San Giovanni in Marignano per la Romagna, ma anche alle aziende che si trovano nel Bolognese. Nel nostro piccolo, collaboriamo con diverse università dell’Emilia Romagna.

C’è un tavolo della moda che dovrebbe unire tutti questi ambiti, e sicuramente ne parleremo anche nel corso il talk del 12 ottobre in Fondazione Fashion Research Italy.

Da dove derivano oggi i vostri introiti?

Quel che noi definiamo b2b, ovvero le collaborazioni con aziende per la realizzazione di progetti speciali, è determinante per la crescita dell’azienda. Il mondo della distribuzione b2c, è invece più complesso perché comporta vincoli legati a situazioni esogene e perché siamo comunque un piccolo brand. Il b2c presenta il potenziale più alto, ma richiederà più tempo per arrivare a uno sviluppo effettivo.

Con diverse realtà, per esempio con Camera dei Buyer, facciamo delle attività per la diffusione della sostenibilità nei punti vendita. E un progetto a cui tengo tantissimo si chiama “Rigenera i tuoi jeans”: ritiriamo i jeans che non vengono più indossati e li restituiamo al cliente sotto forma di borsa, in base alla scelta di modello. Questo progetto è già arrivato al retail, perché lo abbiamo portato ai negozianti che diventano a loro volta un punto di raccolta dei jeans vecchi, creando un ulteriore momento di contatto con il cliente.

Cosa servirebbe per consolidare la cultura dell’economia circolare e del riciclo?

Bisogna diffondere la cultura della sostenibilità per superare la confusione attuale ed evitare i fenomeni di greenwashing. E poi penso che ci sia tanta comunicazione sulla sostenibilità ma non un effettivo cambiamento dei comportamenti di acquisto. Non c’è la disponibilità a pagare di più per acquistare un oggetto realizzato in modo responsabile. Purtroppo il fast fashion ha disabituato le persone a comprendere che la qualità ha un prezzo, e la trasformazione di un materiale già utilizzato è molto più costosa rispetto all’impiego di un materiale vergine, almeno fino a quando sarà disponibile… Per superare quest’ignoranza e disinteresse, probabilmente sarebbe utile se lo Stato creasse qualche forma d’obbligo tramite normativa.

Che ne pensa delle nuove generazioni, in apparenza le più sensibili ma poi anche clientela della “moda insostenibile” di Shein. ?

In effetti, analizzando chi acquista sul nostro sito, emerge un’età media superiore ai trent’anni. E non ho compreso, tra i più giovani, dove finisca lo slogan e dove inizi il nuovo modo di vivere. C’è da considerare però, almeno in Italia, l’aspetto legato al potere di spesa. Certamente ai giovani di oggi manca la capacità economica per acquistare prodotti recycle, che costano più degli altri.


Andrea Guolo
Giornalista professionista specializzato in economia, scrittore e autore teatrale, ha pubblicato libri per le edizioni Franco Angeli, San Paolo Marsilio, Morellini, tra cui La borsa racconta (2007, Franco Angeli), Uomini e carne. Un viaggio dove nasce il cibo (2009, Franco Angeli), Costruttori di bellezza (2014, Marsilio) e #IoSiamo. Storie di volontari che hanno cambiato l'Italia (2021, San Paolo). Fondatore e direttore di ItalianWineTour.Info, attualmente scrive per gli editori Class (Mf Fashion), Condé Nast (Vogue Italia), Gambero Rosso, Gruppo Food e per altre testate italiane ed estere.

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