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Pillole di sostenibilità: Upcycling

Non di rado il concetto di upcycling viene confuso con quello di riciclo, anche se si tratta di una sua specifica evoluzione che prevede la valorizzazione di scarti di lavorazione e prodotti giunti a fine vita attraverso un processo di ripensamento creativo. Il termine compare per la prima volta nel 1994 in un’intervista a Reiner Pilz, ingegnere meccanico tedesco, che in merito al riciclo dichiarò:

Io considero il riciclo un down-cycling. Quello che ci serve è invece l’up-cycling, grazie al quale ai vecchi prodotti viene dato un valore maggiore, e non minore.

Riportando tali considerazioni al settore moda, questo approccio si declina attraverso la creazione di abiti e accessori a partire dall’esistente, ma anche da scarti. Differenza non banale, dal momento che è corretto distinguere un upcycling post e pre-consumo: l’uno consiste nel recupero di scarti tessile della confezione, di stock di magazzino o di esuberi di prodotto finito, l’altro prevede la rielaborazione di prodotti usati o vintage. Sono numerosi i vantaggi che ne derivano dai due approcci, anzitutto di natura economica in virtù dell’abbattimento dei costi dovuti alla produzione, la riduzione degli sprechi e, non ultima, l’unicità dei capi.

L’upcycling post-consumo richiede di fatto un impiego minimo di energia, acqua e inquinanti in genere, a differenza del riciclo propriamente inteso, che necessita di processi di pulitura e generazione spesso molto dispendiosi. L’upcycling pre-consumo, invece, convince i brand anche sul piano estetico e stilistico: Miu Miu, ad esempio, ha lanciato una limited edition di ottanta pezzi realizzata interamente con pezzi vintage degli anni ’80 recuperati in mercatini e negozi dell’usato per essere riadattati e decorati o, ancora, MM6 Maison Margiela che, usando la tecnica del patchwork, ha mixato le rimanenze di collezioni precedenti per realizzare nuovi accessori.

Vuoi approfondire altri aspetti legati alla moda sostenibile? Continua a leggere le pillole della nostra rubrica!


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