Alla ricerca di una moda sostenibile
Nel 2013 crolla a Dacca il Rana Plaza, palazzo che ospitava la produzione di noti marchi occidentali di abbigliamento: oltre mille i lavoratori che hanno perso la vita e più del doppio quelli rimasti feriti. Da quel 24 aprile, l’attenzione del mondo sull’impatto ambientale e sociale della Fashion Industry è massima.
Un mondo overdressed
Il sondaggio di Bof-McKinsey The State of Fashion 2019 descrive il mondo della moda con tre termini: cambiamento, digitale e veloce. Un settore per sua natura in continua evoluzione, anche grazie alle nuove tecnologie che ne stanno rivoluzionando le dinamiche lungo tutta la filiera, dalla produzione alla comunicazione, fino alla vendita. Veloce, sia nella crescita, pari al 4-5% nel 2018, che nel consumo, se si pensa che in media oggi si acquista il 60% in più di capi rispetto al 2004, quota destinata ad aumentare di 3 punti percentuali nei prossimi 10 anni (Copenaghem Fashion Summit 2017). Un comportamento compulsivo, tipico soprattutto dei più giovani, i consumatori più impazienti, stregati dalle innumerevoli ma effimere proposte dei nuovi media che giocano un ruolo fondamentale sui loro desideri.
Questi cambiamenti hanno comportato un grave aumento nel consumo idrico, delle emissioni di C02 e della produzione di rifiuti rendendo il settore tessile uno dei più inquinanti dopo l’Oil&Gas.
L’attenzione alla moda sostenibile
L’urgenza del problema climatico e ambientale ha negli anni generato una rinnovata attenzione da parte dei consumatori. La crescita della richiesta di moda sostenibile è confermata dal Lyst Index, classifica dei brand e dei prodotti di moda più desiderati su scala mondiale, con due terzi dei consumatori che sostituirebbero, eviterebbero o boicotterebbero i brand che fondano il loro business su posizioni controverse. A dichiararlo, in particolare, le generazioni Y e Z che si dimostrano tra le più sensibili all’impatto ambientale e sociale di ciò che acquistano, influenzando così non poco il mercato. Uno studio realizzato da PwC Italia, presentato in occasione del Milano Fashion Global Summit, dimostra che il 70% dei nati fra il 1980 e il 2010 sono disposti a pagare di più per un prodotto ma chiedono informazioni più complete, che le imprese devono attivarsi per fornire loro.
#WhoMadeMyClothes
Il modo in cui spendiamo diventa così un canale per esprimere le nostre convinzioni, creando comunità che condividono idee e principi. Ne è un esempio la campagna mediatica di Fashion Revolution #WhoMadeMyClothes che, durante la Fashion Revolution Week di quest’anno, ha visto diffondersi sui social di 50 Paesi del mondo oltre 3 milioni e 250 mila selfie con l’etichetta in vista per chiedere più trasparenza al sistema moda.
Etica ed estetica sono quindi diventate inscindibili e i prodotti non sono più considerati solo per qualità, creatività e tradizione, ma anche per i messaggi che trasmettono.
La nostra filiera è la più virtuosa al mondo, già da due decenni: un aspetto poco comunicato fino a oggi, ma adesso le aziende sono pronte a raccontarsi – Claudio Marenzi, Presidente Confindustria Moda
Sono molte infatti le realtà virtuose che stanno mettendo l’accento sulla responsabilità ambientale: dalle start-up eco-tessili alle grandi maison che scelgono di investire in una svolta verso la moda sostenibile, adottando nuove fibre e tinture innovative e sposando i presupposti dell’economia circolare. Salvaguardare il pianeta attraverso un’industria più consapevole è quindi diventato essenziale non solamente da un punto di vista logico ma anche grazie alla narrazione che la moda stessa sta contribuendo a cambiare comunicando il proprio impegno e premiando i traguardi raggiunti all’interno della filiera.
Quello della moda green è quindi un tema sempre più discusso a tutti i livelli, dal settore del lusso al fast fashion, di cui continueremo a parlare su Fashion Journal.