Fashion Journal

Eco Fashion

Dyloan: tra sostenibilità e innovazione per una moda più responsabile

Sostenibilità e innovazione sono le due facce della stessa medaglia. Lo sostiene Loreto Di Rienzo, Technology Ambassador e fondatore, insieme alla sorella Anna Maria, di Dyloan, azienda manifatturiera nata nel 1987 a Chieti con l’obiettivo di fornire soluzioni tecnologiche da applicare al mondo della moda. Un’eccellenza italiana da più di trent’anni, che ha saputo coniugare la tecnologia con l’artigianalità.

Di Rienzo, ci racconta come siete partiti?

Quando abbiamo iniziato mia sorella ed io avevamo poco più di vent’anni. Decidemmo di investire di tasca nostra in quella che oggi chiameremmo una startup innovativa, acquistando macchinari elettronici per realizzare i ricami. Nel giro di poco tempo abbiamo aggiunto tra le nostre attività la stampa serigrafica e il laser. Non avevamo una formazione specifica, a quel tempo non esisteva, ma siamo cresciuti in un contesto in cui c’era una tradizione profondamente artigianale. Abbiamo creduto fin da subito nel nostro progetto e ci abbiamo messo, oltre all’intraprendenza e alla curiosità, anche un grande spirito di sacrificio e umiltà. Siamo partiti davvero da zero.

Quando avete consolidato il vostro rapporto con la moda?

Abbiamo cominciato con il prêt-à-porter, offrendo all’epoca soluzioni poco conosciute. In quegli anni eravamo tra i pochi che usavano il laser e la termosaldatura, nel mondo del fashion l’abbiamo portata noi, per dire. La nostra intuizione è stata quella di far dialogare tra loro le tecnologie, andando a colmare uno spazio scoperto perché le altre aziende avevano singole specializzazioni. Inoltre la nostra competenza nell’uso dei macchinari dava oggettivamente dei risultati unici quindi nel giro di cinque o sei anni, grazie al passaparola, hanno cominciato a chiamarci le più importanti case di moda colpite dai nostri lavori. Tra i primi a scommettere su di noi, sono stati, solo per citare qualche nome, Dolce & Gabbana, Trussardi, Moschino, Ferré e Versace. A quel punto abbiamo deciso di aprire uno showroom a Milano, la città in cui tutto accadeva. A un certo punto però anche noi abbiamo avuto una crisi identitaria e abbiamo dovuto ripensare ancora una volta a come rinnovarci.

Cosa è successo?

Attorno al 2008 molti brand italiani hanno delocalizzato e di conseguenza tante aziende come la nostra hanno chiuso i battenti. Dovevamo decidere il da farsi, ma alla fine abbiamo tenuto fede alla nostra storia non accettando le proposte che ci venivano fatte dall’estero. Poi a un certo punto siamo stati scoperti dalla Francia. La crisi che stavamo passando noi, là era già passata quindi le maison del lusso si sono messe a cercare nel Made in Italy il savoir faire. Volevano la qualità, non solo il prezzo: il pregio della nostra manifattura è riuscire a declinare perfettamente le esigenze creative del designer. In quegli anni, inoltre, abbiamo conosciuto la PLEF, Planet Life Economy Foundation, una fondazione che promuove la sostenibilità. Grazie a loro abbiamo ritrovato la motivazione necessaria per continuare a investire sulla nostra attività.

In che cosa è consistita la svolta sostenibile?

Abbiamo avuto la fortuna di ricevere degli ottimi consigli dal fondatore della PLEF, Paolo Ricotti. È stato lui a suggerirci di immaginare un futuro in cui l’economia fosse basata sul valore e non più sui grandi numeri. Abbiamo investito sul personale, abbiamo prestato maggiore attenzione al consumo energetico e abbiamo cominciato a fare ricerca da un lato sui materiali sostenibili e dall’altro sull’impatto delle tecnologie che usavamo. Inoltre secondo Ricotti dovevamo guardare di più al nostro territorio, offrendo possibilità, investimenti e know-how perché, diceva, un giorno il territorio ci avrebbe restituito molto più di quello che avremmo dato.

Per voi la sostenibilità ha anche una forte impronta etica?

Non può essere altrimenti. Secondo me è meglio parlare di approccio responsabile, più che sostenibile: è un lavoro culturale che richiede anni. Non ci si improvvisa svegliandosi una mattina decidendo di essere sostenibili. Sostenibilità nella manifattura significa avere cura, significa tempo, significa investire in nuovi macchinari e tecnologie. È un processo lunghissimo. Noi stiamo raccogliendo ora i frutti di un percorso che abbiamo intrapreso molti anni fa quando nessun brand era sensibile al tema, a differenza di adesso che è diventato un imperativo. Pensare green vuol dire guardare le stesse cose con uno sguardo diverso.

Cosa vuol dire per voi fare innovazione nel mondo del tessile e abbigliamento?

Il nostro è un mondo così in movimento che si fa innovazione quotidianamente. Si lavora a progetti sempre nuovi e ogni volta che vengono fuori soluzioni si vanno a rinnovare processi e prodotti. Però per me è ancora più importante riuscire a fare innovazione creando sinergie tra attori diversi nella stessa filiera o che si occupano di tecnologie differenti. Solo così si può andare avanti. Proprio per questo abbiamo lanciato il progetto D-House.

Ce ne può parlare?

Con D-House abbiamo lanciato il cuore oltre l’ostacolo, creando un punto di incontro tra la creatività e la tecnologia. Noi non possiamo adagiarci sul nostro sapere, ma abbiamo bisogno di vedere quello che accade fuori. D-House quindi è la sintesi di una serie di percorsi che abbiamo intrapreso negli ultimi dieci anni anche perché ricerca e sviluppo sono proprio nel nostro DNA. In poche parole, la formula dello showroom statico non ci bastava più, volevamo che il nostro fosse uno spazio interattivo. Lo chiamiamo infatti laboratorio urbano perché secondo noi anche le città possono esprimere innovazione nella manifattura, tant’è che per noi non c’è distanza tra la nostra realtà produttiva a Chieti e l’attività di sperimentazione che portiamo avanti a Milano.

Cosa fate in questo laboratorio urbano?

In D-House abbiamo fatto convergere aziende che si occupano di tecnologie e realtà che presentano nuovi materiali: solo attraverso questa interazione si potrà portare innovazione con una direzione di sostenibilità. Lo stiamo vedendo ora con la partnership con Stratasys, azienda leader nel settore per quanto riguarda la stampa 3D: vogliamo sviluppare questa tecnologia nella produzione visto che ora è confinata ancora al mondo della prototipazione. Vogliamo essere l’anello di congiunzione tra mondo tecnologico e creatività con un occhio alla sostenibilità, cercando di offrire soluzioni grazie alla nostra rete.

Ci può fare un esempio?

Uno dei problemi del mondo del fashion è lo stock degli invenduti o delle seconde scelte accatastate nei magazzini, specialmente dopo lo scandalo dei capi bruciati a cui è seguita la firma degli accordi di Parigi. Noi abbiamo deciso di affrontare il problema mettendo a disposizione i tanti creativi che conosciamo e le tecnologie di cui abbiamo un’ottima conoscenza. Per questo, due anni e mezzo fa abbiamo lanciato D-refashion lab, un progetto di upcycling che dona una nuova vita a questi capi con interventi di customizzazione e personalizzazione.

Nei vostri trentacinque anni di storia avete lavorato con le case di moda più importanti. Quale è stata quella volta in cui si è emozionato?

Posso fare due esempi. Nella seconda metà degli anni 90 abbiamo cominciato a collaborare con il brand Marithé + François Girbaud. Mi hanno coinvolto subito nella progettazione della collezione. Fino a quel momento con le nostre tecnologie avevamo lavorato sulla decorazione, ma il duo di stilisti mi ha detto che quella decorazione poteva essere anche funzione. Per me è stato un passaggio importantissimo perché ho capito che il nostro lavoro poteva essere utile oltre che bello. Una decina di anni fa invece mi sono trovato nello studio di Nicholas Ghesquière quando era direttore creativo di Balenciaga. Lui era interessato a una particolare tecnologia e mi ha spiegato ciò che voleva. Abbiamo collaborato per ottenere il risultato ed è stato lì che ho compreso come l’artigianalità può valorizzare la tecnologia e viceversa. È raro incontrare stilisti così illuminati con i quali creare qualcosa di incredibile.

Un consiglio ai giovani che vogliono avventurarsi nel mondo della moda?

Essere umili e mai arroganti. Le due storie citate per me sono emozionanti perché sono due esempi di condivisione che hanno innescato dei processi di innovazione in Dyloan. Sembra scontato, ma nel nostro lavoro c’è sempre da imparare. Per questo non può esserci spazio per l’arroganza.

Loreto Di Rienzo sarà tra i professionisti protagonisti della prossima edizione del corso Green Fashion, che si terrà in presenza a Bologna e in streaming il 19, il 20 e il 26 novembre 2021 (a cui si aggiunge il workshop del 27 novembre in esclusiva per i partecipanti in presenza).


Giorgia Olivieri
Giornalista freelance, scrive di moda, costume e cultura. Dal 2011 cura la rubrica BOutique su Repubblica Bologna ed è co-autrice della guida Grand Tour Bologna. Ha realizzato alcuni reportage indipendenti che sono stati oggetto di mostre e pubblicazioni. Collabora con varie testate tra cui Vanity Fair: tra le sue ossessioni la moda secondo i reali inglesi.

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