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Le grandi antesignane del Made in Italy

L’espressione del gusto italiano si sviluppa durante gli anni ‘30 e ’40 in un contesto politico e culturale pervaso dall’autarchia del regime fascista, che impone una produzione di abbigliamento in linea con canoni e materiali nazionali e porta all’affermazione di uno stile autonomo e originale. Nel corso degli anni ‘50, si evolve poi verso l’orientamento di stampo consumistico che accompagna gli anni del boom economico e riflette i cambiamenti della società del dopoguerra.

Il panorama della nascente moda italiana è sin da subito caratterizzato da una frammentazione geografica e da una precisa diversificazione ed organizzazione dei ruoli giocati dalle città più in vista: Roma diventa il tempio dell’Alta Moda, Firenze la passerella per la moda-boutique, mentre Torino — e soprattutto Milano — si specializzano nella produzione degli abiti di confezione, precursori del prêt-à-porter.

Non si può parlare dell’Italia degli anni ‘50 senza menzionare Cinecittà, all’apice del suo successo internazionale durante la produzione dei grandi kolossal americani, dimora dello star system e dell’alta società, a sua volta emblema del duplice scambio tra importazione del sogno e del modello di vita americano ed esportazione dello stile e del gusto Made in Italy.

L’Alta Moda Italiana nel codice vestimentario dei grandi atelier romani

L’Alta Moda trae ispirazione dagli abiti da sogno dei film per poi tradurli in creazioni moderne, sontuose e altamente glamour. In questo contesto, l’Atelier delle Sorelle Fontana diventa una meta fissa delle stelle del cinema, soprattutto americane, che ricercano lo stile italiano bramando la nascente silhouette a vita stretta con décolleté in evidenza, gonna ampia e lunghissima e un’ampia scollatura su schiena e spalle per la sera.
In un’originale e personale rivisitazione — se non anticipazione — del New Look che Dior svilupperà di lì a poco, lo stile che ben presto verrà identificato come sinonimo di qualità e buon gusto attinge anche dalla grande tradizione manifatturiera, in particolare dalle decorazioni preziose che presto diventano quasi un segno distintivo: dai ricami in oro e argento dell’Atelier Carosa, alle applicazioni con vetri di murano e pietre dure delle Sorelle Fontana, ai coralli e alle madreperle di Maria Antonelli, fino agli inserimenti di materiali di grande effetto plastico di Germana Marucelli.
Nel 1949 le Sorelle Fontana vestono la giovane e ambiziosa attrice Linda Christian che, in occasione del suo matrimonio con Tyrone Power, sfila nella basilica di Santa Francesca Romana con un abito principesco che passerà alla storia come il primo del Made in Italy: una creazione gioiello in raso bianco, impreziosita da ricami e da cinque metri di strascico. L’evento ha una grandissima eco mediatica internazionale e la richiesta di abiti cresce a dismisura anche oltre i confini nazionali.

L’Alta Moda pronta, ovvero la nascita delle sartorie per l’alta borghesia

Per far fronte alla forte richiesta e a una fisiologica e progressiva segmentazione del mercato, Zoe, Micol e Giovanna Fontana, al pari di moltissime altre case italiane – come Schuberth con la linea Miss Schuberth e Mila Schön – iniziano la produzione dell’Alta Moda pronta: seconde linee che si ispirano alle creazioni più esclusive, su misura, ma semplificate nei tagli e rese più accessibili al pubblico grazie all’uso di materiali più economici e tecniche di cucitura proprie della confezione in serie.

La Moda-boutique e le sfilate della Sala Bianca

A Firenze, nei primi anni 50, l’Italian Look trova la propria consacrazione all’interno delle sfilate organizzate da Giovanni Battista Giorgini a Villa Torrigiani e nella famosa Sala Bianca di Palazzo Pitti: nei grandi saloni rinascimentali sfilano le creazioni delle sartorie più rinomate di Roma e di Milano come Carosa, Fontana, Simonetta, Germana Marucelli e Jole Veneziani.
Tra il pubblico figurano i più importanti buyers americani che vedono nella cosiddetta moda-boutique un prodotto eccellente per il mercato d’oltreoceano e per la grande distribuzione di fascia alta: creazioni realizzate in piccoli laboratori dove lo stile incontra la qualità dei materiali e della confezione sartoriale, ma realizzabili su scala sufficientemente ampia da poter servire le più prestigiose catene di grandi magazzini. Nascono i department store e con essi una nuova esigente clientela che guarda con attenzione all’Europa e alle sue mode.

Milano: tra industria di confezione e atelier

Milano e, marginalmente, Torino si confermano come il centro della produzione degli abiti di confezione, grazie alla vicinanza delle grandi aziende tessili che vedono nell’abbigliamento pronto, basato su un preciso sistema di taglie, una grande opportunità imprenditoriale.
In questo contesto di stampo prettamente industriale il ruolo delle sartorie e degli atelier si arricchisce di ulteriore valore poiché è la componente artistica e stilistica a fare la differenza nella creazione di un prodotto destinato alla borghesia, che inevitabilmente non trova lo stile e il prestigio desiderato negli abiti femminili di confezione.
Gli atelier di Milano di Biki (Elvira Leonardi Bouyeure), Jole Veneziani — la sarta delle prime della Scala — e di Germana Marucelli diventano, sfilata dopo sfilata, il riferimento delle dive più importanti dell’epoca del calibro di Josephine Backer, Marlene Dietrich, Maria Callas e Lucia Bosè, perché capaci di proporsi come vera e propria alternativa all’egemonia francese di Dior, Saint Laurent e Chanel.


Valeria Battel
Giornalista per numerose riviste italiane ed internazionali è docente di Storia del Costume e della Moda presso NABA.

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