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Patrizia Finucci Gallo: l’arte di raccontare storie attraverso ciò che indossiamo

Scrittrice e influencer culturale, Patrizia Finucci Gallo ha fondato un salotto in cui il serio si mescola con il faceto. Appassionata di moda, di sé dice «sono una collezionista narrativa». Nella vita di tutti i giorni indossa i capi che sceglie per la storia che raccontano. Non ci sono teche nel suo appartamento ma un guardaroba vivo per tuffarsi, non senza un pizzico di nostalgia, in altre epoche. Ecco cosa l’intellettuale e docente del corso Archivi della Moda. Collezioni private e archivi vintage, che si terrà in streaming dal 23 al 25 Giugno, ci ha raccontato a proposito della sua collezione.

Patrizia Finucci Gallo, lei che tipo di collezionista è?

Non mi considero una collezionista tradizionale. Più che di raccolta di abiti e accessori, preferisco parlare di ricerca. Soprattutto perché mi concentro su due periodi per me molto importanti anche se da punti di vista diversi: gli anni 20 tra il Liberty e il Déco e gli anni 80 e 90.

Cosa la affascina della moda di cento anni fa?

Me lo sono chiesta tante volte, non c’è una ragione reale. Tutto ciò che riguarda quegli anni per me è come una calamita. Di quel periodo mi piace tutto. Adoro la lentezza, la sensualità e la rivoluzione femminile. E allora non mi perdo una mostra, un film, una visita in giro per l’Italia o l’Europa. Posso dire di averne anche fatto uno stile di vita tanto che sto ultimando una guida in cui è segnalato che tipo di abbigliamento adottare, in quali alberghi soggiornare, gli esempi di architettura da andare a vedere e addirittura quali pasticcerie frequentare. In questo campo c’è stato un grande fermento creativo segnato da una forte irruzione della modernità in ogni categoria, anche nella cucina, per dire.

Non c’è quindi solo una ragione meramente estetica?

No. Per me è un periodo di estremo fascino soprattutto per il ruolo della donna. Gli stilisti hanno ricominciato a prendere tantissimo da quell’epoca. Penso alla collezione di qualche anno fa della linea I’m Isola Marras: Antonio Marras si è ispirato a Lilja Brik, la musa di Vladimir Majakovskij.

In che cosa consiste la sua collezione?

Innanzitutto la mia è una collezione viva. Tutto quello che posseggo non è rinchiuso in una teca numerata, non conto i capi ma li indosso. Come dicevo prima, è parte di me e di quello che sono. Voglio che quello che indosso racconti la storia attraverso di me. Io vedo la collezione come una forma di narrazione. Tutto ciò che acquisto nei mercatini – miei luoghi privilegiati di caccia – finisce nel mio guardaroba: per questo compro solo abiti o scarpe della mia misura, il resto non mi interessa e non sono neanche attaccata alla firma a meno che non sia qualcosa di pazzesco. Ho qualche pezzo di Dior e di Chanel ma quello che mi attira è lo stile e la buona qualità.

Ovviamente non ci sono abiti che si possono mettere tutti i giorni ma spesso scelgo qualche capo e lo indosso in casa. Ho bisogno di vedere i miei pezzi e di toccarli e posso farlo perché la mia quotidianità me lo permette. Indosso i modelli più delicati quando ricevo gli ospiti del mio salotto oppure la mattina quando mi sveglio mi infilo una delle mie vestaglie di seta. Ho anche una ritualità che mi riporta a quegli anni come la colazione servita su vassoi e centrini. Il mio vestire è legato al personaggio che mi piace interpretare. E vivere. È la differenza che passa tra una collezionista seriale e una collezionista narrativa, come mi piace definirmi.

Quale elemento ricorrente del periodo le piace di più?

Io sono una grande piumaiola, metterei le piume dappertutto. Poi mi piacciono molto i colli di pelliccia e le stole. Nei mercatini ci sono pezzi di quel periodo perfettamente conservati arrivati fino a noi. Ovvio, una pelliccia al giorno d’oggi non la comprerei mai ma per le donne della generazione di mia madre era normale averne una nell’armadio. Inoltre, nel recuperarle invece di buttarle, a mio avviso, c’è anche un occhio alla sostenibilità.

Facciamo un salto temporale, cosa la colpisce invece della moda degli anni 80 e 90?

Anche in questo caso la creatività. C’era un’irruenza incredibile in quegli anni, penso all’inventiva, al colore, all’azzardo. Era un periodo pieno di cultura, c’era un messaggio e la sensazione che tutto potesse succedere. Io sono stata molto amica di Elio Fiorucci ma quelli erano i tempi di stilisti come Franco Moschino: lui e Fiorucci erano una sorta di Keith Haring della moda. Dopo gli anni 90 secondo me la moda ha smesso di essere racconto, narrazione.

Ce lo spieghi meglio.

Così come negli anni 20, in quegli anni tutto era contaminato. Cocteau realizzava abiti con Elsa Schiaparelli, per dire. Gli scrittori e gli stilisti collaboravano. Anche negli ultimi anni del secolo scorso era tutto inanellato: se andavi a vedere una sfilata e poi a teatro non ti sembrava di essere dentro un contenitore diverso, ora la differenza si sente. E non si trattava solo di estetica, accadeva perché dentro c’era un sogno.

E la moda di oggi?

Mi sembra un continuo repêchage nel passato. Basta vedere i modelli di borse, le fantasie, i loghi.

Secondo lei si tratta di valorizzazione di un marchio o di mancanza di idee?

Entrambe le cose, e non dico che sia sbagliato anche se si tratta di un’operazione di marketing.
Per questo penso che gli archivi delle case di moda dovrebbero essere di dominio pubblico: sarebbe un modo di raccontare la storia di un brand a quelle generazioni logomaniache che ignorano quanta creatività ci sia dietro ciò che indossano oggi. Per quanto riguarda l’abbigliamento, si fanno guidare dagli influencer che seguono ma non conoscono la matrice del pensiero dello stilista a monte.

Cosa dovrebbe fare quindi un brand?

Dovrebbe avere la forza di lanciare contestualmente anche qualcosa di nuovo ma oggi di contenuti non è che ce ne siano tanti. E poi non c’è più la libertà di un tempo. Quali sono oggi i temi culturali su cui ragionare? Questo è un problema anche per la moda. Bisognerebbe lavorare anche sul presente pensando all’abito come forma di partecipazione intellettuale. Tutto si può raccontare, anche andando a ripescare nel passato. Penso al grande Issey Miyake: dentro il suo minimalismo c’è la storia del disastro nucleare di Hiroshima che lui ha vissuto in prima persona, lo ha confessato in tarda età. Ma questo non è importante: le sue collezioni erano comunque potenti perché c’era un’idea forte dietro. In questo momento c’è molto bisogno di operazioni culturali azzardate e folli ma in quello che vedo non trovo che ci sia molto coraggio.

Nostalgia per i tempi protagonisti delle sue collezioni?

Io un po’ nostalgica lo sono. Quelli come me vivono in questa boule de neige trovando rifugio in una nicchia di possibilità temporale. E forse siamo più di moda di quanto si possa pensare.

Questi e molti altri i temi che affronteremo con Patrizia Finucci Gallo durante il corso Archivi della Moda. Collezioni private e archivi vintage, che si terrà in streaming dal 23 al 25 Giugno.

© Ph Bruno Angelo Porcellana


Giorgia Olivieri
Giornalista freelance, scrive di moda, costume e cultura. Dal 2011 cura la rubrica BOutique su Repubblica Bologna ed è co-autrice della guida Grand Tour Bologna. Ha realizzato alcuni reportage indipendenti che sono stati oggetto di mostre e pubblicazioni. Collabora con varie testate tra cui Vanity Fair: tra le sue ossessioni la moda secondo i reali inglesi.

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