Fashion heritage e pandemia: uno scenario digitale in costante evoluzione
Nell’incerto contesto sanitario ed economico in cui da due anni si muovono le aziende italiane, sempre più brand hanno guardato al passato, riscoprendo le proprie radici e valorizzando il proprio background culturale e creativo attraverso un riordino dei materiali d’archivio.
Ma come è evoluta la concezione di questo importante asset e quali modalità narrative sono emerse da questi anni difficili? Lo scopriamo con Alessandra Arezzi Boza – Founder di AAB-Studio, Brand heritage expert e fashion curator per maison come Fendi, Emilio Pucci, Sergio Rossi, Armani.
Come hanno influito questi anni di pandemia nei progetti di comunicazione e valorizzazione degli archivi?
È una domanda che mi sono fatta e continuo a farmi anch’io, anche per capire che evoluzione oggi può avere questa professione in un mondo che è cambiato molto velocemente! A fine febbraio 2019 tutto si è fermato e pensiamo cosa abbia comportato dal punto di vista del processo creativo di una collezione moda: dalla realizzazione dei moodboard alle riunioni, dalla selezione dei materiali allo shooting fotografico, nulla era più fisicamente realizzabile. Quindi, come in tutti i settori, il digitale ha aiutato a coprire il gap e si è così riscoperto anche il vero valore dell’archivio; che non è soltanto un custode, ma uno strumento di lavoro, di condivisione e creatività. Un esempio su tutti Balenciaga con la sua prima sfilata Haute Couture nel 2021 evidentemente frutto di uno studio approfondito dell’archivio, con una collezione Balenciaga al 2.000%, in contrasto con lo spirito iconoclasta che era stata la cifra stilistica di Gvasalia per Balenciaga prêt-à-porter.
Dal mio punto di vista, la pandemia ci ha dato del tempo per riflettere e ci ha portato, come Heritage Manager, a dover fare proposte più concrete e critiche su quello che sappiamo essere il patrimonio aziendale. Poi, ovviamente, tutte le nuove tecnologie ci hanno permesso di fare cose che prima non si potevano fare. Non dimentichiamo che durante la pandemia intere collezioni sono state create lavorando a tutti i livelli (ricerca, tessuti, creatività, perfino i fitting), solo digitalmente. Questo ha influenzato molto anche le modalità di accesso, utilizzo e fruibilità dell’archivio, e di conseguenza ha creato nuove sfide per gli Heritage manager.
E i progetti che prevedevano il lancio di una mostra si sono poi fermati o evoluti in qualche modo?
Evoluti! Faccio l’esempio di Manolo Blahnik. Lo scorso anno ha celebrato i suoi 50 anni ed era prevista una faraonica mostra in un luogo da definire, ma la pandemia li ha fermati ponendoli di fronte un’altra sfida che Blahnik ha vinto, trasformandola in un’esplorazione degli archivi totalmente digitale a cura di Judith Clark. Quindi, tutto il lavoro che sarebbe dovuto sfociare in qualcosa di abbastanza classico, come una mostra di scarpe in un luogo deputato con una curatrice che ha sempre fatto mostre fisiche, è diventato nel giro di pochi mesi un progetto all’avanguardia con molta tecnologia, perché si parla di ologrammi, 3D, realtà aumentata e un concept curatoriale nuovo incentrato sulla riscoperta degli archivi .Un progetto che sospetto non si fermerà alla celebrazione dei 50 anni ma andrà avanti probabilmente, non a mettere online tutto l’archivio però sicuramente continuerà a valorizzare temi cari a Blahnik. È interessante come nel giro di un anno e mezzo si sia spostato completamente l’asse di interesse e come oggi, una mostra di moda, non possa più fare a meno del supporto delle tecnologie digitali!
Nel prossimo futuro, quale sarà l’evoluzione dell’archivio a supporto di queste tecnologie e viceversa?
Credo che qui il discorso sia completamente allacciato. La tecnologia sta diventando fondamentale perché, lo abbiamo visto in questi anni, ci permette di fare cose che prima pensavamo di poter gestire solo fisicamente e questo ovviamente si applica anche alla gestione dell’Heritage.
Non solo, la tecnologia apre scenari inediti con cui confrontarsi: ad esempio uno dei temi del momento è, sicuramente, la tecnologia blockchain perché non solo va a creare identità digitali di cui abbiamo sempre più bisogno, ma assegna una certificazione alla creatività, passata e presente, fornendo maggiore trasparenza, sicurezza e accessibilità. Oggi i confini tra identità fisica e digitale stanno diventando sempre più labili e intrecciati e la blockchain offre nuove opportunità sia sul tema della proprietà digitale e della valorizzazione delle collezioni sia, soprattutto, sul tema della loro fruibilità e accessibilità: la blockchain può ridefinire il modo in cui l’heritage può essere gestito e fruito. Tutte queste novità tecnologiche sono fondamentali e secondo me porteranno ad un circolo virtuoso: l’archivio è importante perché garantisce e inquadra culturalmente quello che identifichi, la tecnologia aiuta l’archivio a trovare diversi sbocchi, anche dal punto di vista della comunicazione.
In conclusione, qual è quindi secondo te il senso più profondo di recuperare il passato?
Capire chi sei stato e chi sei, per definire chi vorrai essere: che non è una cosa chiara a tutti.
Oggi un brand, grande o piccolo, non è solo un logo né tantomeno un insieme di prodotti: è un universo complesso e stratificato di valori. Conoscere il proprio passato vuol dire sempre di più avere un background culturale e dei valori in cui riconoscersi in senso lato, non più solo dei codici stilistici a cui ispirarti o pezzi iconici da riproporre. Il passato non deve essere vissuto come un limite alla creatività e alla novità ma deve aiutare a capire cosa puoi effettivamente valorizzare del tuo marchio, a non fare errori di comunicazione, puntando invece sulle tante storie che non si conoscono e su cui si possono costruire anche belle strategie comunicative.