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Fashion Journal

Eco Fashion

Cinque step per una moda green (and social)

Nella moda, sostenibilità dev’essere sinonimo di innovazione.

Si apre così la nostra chiacchierata con Fabio Guenza, fondatore nel 2010 di Blumine, società che fornisce servizi per la sostenibilità delle imprese del tessile abbigliamento. Ci spiega come il percorso verso la moda green (and social) costituisca un cambiamento e miglioramento necessario per permettere a un’azienda di rimanere sul mercato, specie in questo momento in cui l’offerta supera la domanda. “Una situazione quella post-Covid” aggiunge “che il report 2020 The state of fashion di McKinsey fotografa proprio come uno shock darwiniano in cui le imprese del settore lottano per la sopravvivenza, in cui non è quindi difficile comprendere il ruolo fondamentale dell’innovazione per prevenire la crisi”.

Il ricercatore specializzato in sviluppo e integrazione di CSR (Corporate Social Responsibility) ci guiderà in un viaggio in 5 tappe verso un orizzonte di moda sostenibile in cui dare significati a vecchi concetti, con l’auspicio che brand e fornitori possano convergere su un territorio comune.

La posta in gioco? Imprese sane in un pianeta in salute.

1. Nuovi modelli di business sostenibili, per cambiare mantenendo la propria identità

Come consulenti noi abbiamo un approccio laico, non precostituito, con gli imprenditori (e i manager) con cui cerchiamo di individuare un paio di punti su cui innestare un processo di miglioramento. Per noi innanzitutto sostenibilità è un’opportunità di crescita su cui è necessario investire. Andiamo per gradi con uno schema progressivo tagliato su misura per l’azienda. Si parte dall’analisi di quello che c’è già per capire cosa va valorizzato e cosa sviluppato. Guardiamo ai competitor, a ciò che offrono e alle certificazioni che possiedono per passare alla richiesta del mercato e, nel caso di imprese fornitrici, cosa chiedono i brand. Una volta stabilito un percorso si tratta “solo” di implementarlo.

Chi decide di mettersi in gioco questo lo sa anche se magari non ha un’idea precisa di tutto ciò che lo aspetta. Ma costruire il quadro d’insieme è necessario: non bisogna concentrarsi solo sulla figura in primo piano ma anche sulla cornice, lo sfondo, sul materiale di cui è fatta la tela, la consegna dell’opera e così via. La complessità di questa trasformazione del modello di business non deve scoraggiare l’imprenditore: chi si barrica dietro idee preconcette, oggi rischia davvero la possibilità di rimanere sul mercato.

La strada verso la sostenibilità è questo: un buon lungo termine fatto di tanti buoni brevi termini.

2. L’incontro tra impresa responsabile e consumatore consapevole

Si tratta di una definizione pragmatica, non manualistica, che però rende l’idea. Chi si è evoluto e desidera dare più valore a quello che acquista spendendo meglio i propri soldi è in grado di cambiare il modello di consumo. C’è però anche il consumatore cinico o disilluso che bada ancora solo al prezzo e agisce d’impulso. Non esiste un unicum, è un mondo magmatico: ogni impresa deve capire cosa si attende il suo cliente di riferimento cercando di soddisfare le sue attese.
C’è differenza però tra brand e fornitori. Se nel primo caso è difficile individuare tendenze chiare e univoche, nel secondo non ci sono varie chiavi di lettura: nel mondo industriale i processi innovativi non sono opinabili, occorrono imprese responsabili che giochino d’anticipo. Mi rendo conto che per un anello della supply chain questa corsa in avanti è difficile ma chi non investe in innovazione rischia di sparire. Si tratta di intercettare i cambiamenti per rispondere in anticipo alle richieste che arriveranno dai brand. La catena spesso si inceppa perché manca il dialogo tra il brand che commissiona e il fornitore che non può farsi trovare impreparato.

3. La sostenibilità è la nuova qualità del Made in Italy

Dal punto di vista della sostenibilità, il nostro sistema di regole è tra i più avanzati tra i paesi che producono moda, ma questo valore non è automaticamente percepito dal mercato globale. Chi difende l’etichetta com’era fa una battaglia di retroguardia. Dobbiamo garantire il made how non il made where. Il concetto di qualità deve comprendere il processo produttivo, il rispetto dell’ambiente e delle persone.
Siamo di fronte a un nuovo terreno di sfida e per questo stimolante. Su scala globale siamo tutti a un punto di partenza: ora che Made in Italy non è più un brand immediatamente riconoscibile come sinonimo di eccellenza , la sostenibilità offre l’occasione di competere di nuovo a livello internazionale.

4. Moda circolare e pulita: le nuove parole d’ordine

La circolarità è necessaria perché la moda, che per natura ha vita breve, è una delle industrie più impattanti: sempre più prodotti sempre meno usati, occorre trovare il modo di chiudere i cicli al suo interno. Questo settore si sta riprogrammando in funzione del cradle-to-cradle, per ottimizzare non solo la materia ma tutte le risorse di energia, calore e acqua, senza trascurare packaging e logistica.

Si sta investendo molto sul riciclo post-industriale: è qui che si fanno i volumi più che nel post-consumo. Le tecnologie digitali giocheranno un ruolo fondamentale: rin-tracciabilità, misurazione e reporting. Ne avremo per anni. Si pensi alla chimica: nel 2011 Greenpeace lanciò una campagna dirompente chiamata Detox. Si cominciò a parlare con insistenza dei danni alla salute e all’ambiente provocati dalle sostanze chimiche tessili e in breve crollò un consolidato status quo, con una ripercussione totale sull’intero sistema moda, cambiandolo per sempre in meno di dieci anni.

Certo, anche qui c’è ancora da fare: alla fine tutto ricade sui supplier, ai quali servono strumenti evoluti per gestire una compliance sempre più complessa, nonostante l’avvento di ZDHC. Blumine sta facendo la sua parte con C3.tools. Insomma, la gestione della chimica non è passata di moda, ma continua ad andare di pari passo con la circolarità: se non produci moda pulita, sei fuori mercato.

Safe and circular, così deve essere il fashion oggi

5. Green marketing, non green washing

In materia di comunicazione, i principali asset della sostenibilità sono trasparenza, rendicontazione, condivisione. Bisogna partire da un progetto, meglio se in partnership con qualche stakeholder, e raccontare ciò che succede prima, durante e dopo: certo, uno storytelling efficace è anche una buona mossa di marketing. Ma uno storytelling senza progetto non è marketing, come il caso del take-back sui punti vendita e gli abiti in discarica. Questo non è solo uno spreco di materia, ma di fiducia.

E poi la sostenibilità ha un suo linguaggio, con parole e riferimenti precisi che non si possono improvvisare né sottovalutare (come quando si sente “antibatterico” anziché “batteriostatico”). Bisogna stare attenti, specialmente oggi, a non confondere il consumatore con cattive informazioni o falsi miti, a non incorrere nemmeno inavvertitamente nel green washing: è faticoso farsi perdonare certi errori, in un settore così impalpabile e umorale.


Giorgia Olivieri
Giornalista freelance, scrive di moda, costume e cultura. Dal 2011 cura la rubrica BOutique su Repubblica Bologna ed è co-autrice della guida Grand Tour Bologna. Ha realizzato alcuni reportage indipendenti che sono stati oggetto di mostre e pubblicazioni. Collabora con varie testate tra cui Vanity Fair: tra le sue ossessioni la moda secondo i reali inglesi.

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